La mattina in cui era prevista l’escursione sul Gran Sasso, al lago Pietranzoni, appena sveglio, la prima cosa che sentii fu quella voce. Sai quella voce da dentro che ti dice: “Ma che ci vai a fare? Dormi ancora un po’… E se quella fascite plantare ti si risvegliasse?”.
Non l’ascoltai e partimmo. Dopo un paio d’ore, arrivammo nei pressi del rifugio Racollo dove trovammo la strada chiusa per neve. Provammo a passare lo stesso, ma l’auto slittava. Poi mettemmo le catene, ma l’auto non faceva un millimetro. Sentii ancora la voce che diceva: “Va bene, ti puoi accontentare, anche qui è bello, non credi? La strada è chiusa, forse è un segno che ti devi fermare”.
Mi guardai con gli altri due amici e decidemmo di andare avanti ugualmente e fare gli ultimi sei chilometri a piedi, tra neve e rocce, nel nulla più assoluto in un silenzio disarmante che si potevano sentire i battiti dei nostri cuori.
Non avevo le scarpe adatte (avevo quelle da tennis anziché le trekking) e dopo solo un chilometro i sassi aguzzi si facevano sentire e il piede che si bagna nella neve non era una gran cosa. Ancora quella voce. “Dai, ci hai provato, sei un grande, ma adesso dì agli altri che torni indietro, capiranno”. La fascite plantare iniziava a farsi sentire. Mi fermai e vidi i miei due amici avanti, a passo spedito come bambini verso una scatola di cioccolatini. Mi guardai i piedi e tirai un sospiro profondo e poi rabbia, una forte rabbia. “Forse è meglio che torni indietro” disse la voce che si cibava della mia stessa rabbia. Alzai lo sguardo e la neve era brillante e il sole la tagliava in due davanti a me. “Dai torna indietro adesso, senti che ti fa male il piede? Torna indietro, mi ringrazierai”. Il dolore al piede si fece più forte.
Alzai ancora lo sguardo e vidi il Corno Grande, Sua Maestà, spolverato in vetta dai forti venti di fine inverno. Tutto mi si chiarì. Pensai che essermi svegliato la mattina ed essermi alzato con le mie gambe doveva per forza avere un valore, doveva significare qualcosa, divino o non divino, doveva per forza avere un valore e doveva essere per forza in qualche modo onorato. Urlai verso i miei amici e dissi che mi avrebbero dovuto aspettare: “Hey, aspettatemi!”.
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Li raggiunsi. Trascinai il piede dolorante per gli altri cinque chilometri e arrivammo assieme davanti al lago Pietranzoni ancora ghiacciato. Ci sedemmo e ci mangiammo del cioccolato, parlavamo poco per non rovinare la sensazione di quel momento. Quella fu una delle esperienze più belle degli ultimi anni, coronata da un gustoso caffè in tazzina.
Tutto ciò non sarebbe accaduto se appena sveglio la mattina avessi dato ascolto a quella voce. La stessa voce che sentiamo, spesso un po’ tutti, quella subdola voce che, con l’intenzione di preservarci e metterci a riparo dal mondo, tende a farci vivere ogni giorno uguale a un altro, ma rinunciando alle vere avventure della vita, quelle degne di essere raccontate.
Roberto De Ficis
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